Autismo, diario di una sofferenza nascosta

di Isa Voi 

Autismo, diario di una sofferenza nascosta

Un mondo sconosciuto, lontano ma non irraggiungibile. Racconto di Isa Voi tratto da particolari di storie vere e vissute

“Quel viaggio in corriera verso il mare ligure fu per Giulia un’overdose di emozioni miste tra stupore, gioia e smarrimento. Quel cambio dell’ultimo momento, imprevisto e frettoloso, la fece ritrovare tra il rimbombo di quelle giovani voci che non vedevano l’ora di poter vedere e toccare quella immensa distesa di azzurro chiamata mare, lontana dal cemento di Milano.
La sua amica Vittoria aveva avuto un imprevisto familiare proprio la sera prima di partire e la ragazza non se l’era sentita di dirle di no quando le aveva chiesto di sostituirla. Proprio non ce l’aveva fatta.

In fondo si trattava di passare solo due settimane in compagnia del piccolo Gigi, di continuare quel suo lavoro di educatrice che aveva fatto per tutto l’anno. Il tempo per prepararsi era stato poco, non era stato possibile nemmeno conoscere personalmente quel bambino prima di partire; Giulia si era dovuta accontentare di uno scambio dettagliato di informazioni al telefono da parte di chi conosceva bene Gigi, e di una fredda cartella clinica nella quale poter leggere la diagnosi del bambino. Ma Gigi ora era lì, con lei, con il viso attaccato a quel finestrino della corriera, distante e solitario. Lei gli stava vicino, seduta nel posto accanto a lui: guardava quei folti capelli neri, quegli occhiali fin troppo spessi per il suo viso infantile, quelle gambine che non riuscivano a stare ferme nemmeno quando dovevano. Era così tenero, ma così lontano, ma non di una lontananza fisica: quella fisica si può raggiungere facilmente, quella dell’anima no.

– Ciao Gigi! Io sono Giulia, verrò con te al mare. Ti farò compagnia. Sapeva che non avrebbe avuto nessuna risposta, lo sapeva benissimo, come sapeva benissimo che il piccolo aveva ascoltato le sue parole e soprattutto che la stava osservando, anche senza guardarla, anche senza toccarla.

A metà viaggio l’agitazione scoppiò. All’improvviso Gigi iniziò a scalpitare, non riusciva più a stare fermo, non voleva stare seduto, voleva solo andare via, lontano, quel lontano tanto misterioso e desiderato. Giulia non riuscì a calmarlo, ad avvicinarlo, a rassicurarlo… fu necessario fermare il pullman. Scesero in una piazzola di sosta, troppo grande per lui, troppo deserta. Il piccolo cominciò a scappare davanti agli occhi preoccupati e inermi di Giulia, che solo grazie ad un altro giovane educatore riuscì a fermarlo, per impedirgli di finire imprudentemente nella corsia di marcia.

Era la prima volta che Gigi andava in vacanza da solo, la prima volta che prendeva la corriera senza la sicurezza intima di mamma e papà; aveva paura, era smarrito, non capiva dove si trovasse. Solo alla vista di una fontana si calmò: il piccolo voleva semplicemente bere, aveva solamente sete; ma non aveva mezzi per dirlo, per farsi capire: aveva solo il suo corpo, i suoi gesti confusi, la sua ansia. Fu lì che la ragazza capì che sarebbe stata dura, molto dura, che il loro conoscersi sarebbe stato un cammino tortuoso e che ci sarebbe voluta tanta forza e volontà da parte di entrambi.

L’arrivo in colonia fu per il piccolo simile ad un giro inaspettato e violento sulle montagne russe; la sua stanza era al primo piano, ma per salire quelle scale furono necessarie due ore. Due ore durante le quale Giulia provò tutti i tentativi possibili imparati durante la sua esperienza, due ore durante le quali capì che non c’era una chiave magica per capire un bambino autistico, per entrare dentro di lui, ma che ogni bambino è diverso, particolare, unico e che per ogni caso bisognava ricominciare da capo . Ogni bambino ha le sue qualità, le sue paure, le sue abitudini. Ogni bambino ha bisogno di una chiave propria per aprire lo scrigno del suo animo.

E quel piccolo, che rimase seduto sul marciapiede dello spiazzale, sembrava un pulcino sperduto che in quel momento avrebbe voluto essere sotto le ali di chi conosceva, di chi era abituato a stargli vicino, a curarlo, a chiamarlo. Gigì salì, arrabbiato, perchè costretto a farlo; ma era stato l’unico modo, l’unico che Giulia non avrebbe mai voluto usare. Si sentiva stanca come se fossero passate venti giornate, ma erano passate sole poche ore. Arrivò il momento di prendere le medicine in infermeria prima di andare a dormire. Quelle piccole pastiglie, essenziali e vitali, sembravano pesare come un macigno troppo grande da accettare. Ma non erano le pastiglie che Gigi non voleva, era semplicemente il luogo e chi gliele voleva somministrare che rifiutava. Furono attimi di urla, di tentativi di scappare, di abbracci forzati per tranquillizzarlo; il suo pianto indifeso finì solo quando l’infermiere, bloccandolo, gli fece prendere le medicine con forza, una forza che lo voleva solo proteggere.

Giulia portò Gigi a letto, aspettò che si addormentasse e poi si ritirò nella sua camera. Nel suo silenzio scoppiò a piangere, di un pianto che le veniva da dentro, che la mise in crisi ripensando alle lacrime di quel bambino, al suo malessere e al suo senso di smarrimento e di impotenza. Si sentiva inadeguata, impedita: perchè non era riuscita a calmare Gigi? Perchè il piccolo si era comportato così nonostante la sua presenza? Lei era lì per lui, ma la sua presenza non era servita a nulla. O almeno così sembrava. E intanto era passato solo il primo giorno. Arrivò il mattino. Gigì si svegliò prima di lei; saltellando come un grill, percorse tutta la camerata dove dormivano anche gli altri bambini.

Quel suo suono vocale acuto che non abbandonava mai, svegliò anche gli altri che di corsa si prepararono per affrontare la tanto attesa giornata al mare. Pronti si misero in fila, uno affianco all’altro. Gigi si avvicinò a Giulia, le prese il braccio: Giulia finalmente c’era, per Gigì, per i suoi occhi, nei suoi pensieri. Durò solo un attimo, poi il contatto finì; le lacrime della sera prima si trasformarono in un sorriso, che le ridiede la spinta per continuare, per non abbattersi. Ma soprattutto per sperare. La spiaggia fu una grande palestra per Gigì. Non riusciva a stare fermo nemmeno un secondo, saltellò su quella sabbia mille volte, gettandosi all’improvviso in acqua. Giulia consumò più energia in quel giorno che in un mese di palestra; saltò più volte di scatto per raggiungerlo in acqua e fermare quella sua innaturale mancanza di limite e di senso di pericolo che lo portava sempre più lontano, sempre di più.

Quel contatto in acqua riuscì ad unirli senza bisogno di parole; furono abbracci che illuminarono i loro sguardi smarriti piano piano, lentamente. E in un incrocio fulmineo dei loro occhi Gigi sembrò dirle: -”Mi fido di te, so che ci sei tu a proteggermi.” Ogni volta che si tuffava, la guardava, quasi come un dispetto, provocandola e costringendola a seguirlo; quando Giulia riusciva a farlo rimanere seduto in spiaggia qualche minuto in più, contenendo quell’irrefrenabile fame di movimento, per lei era un grande successo, un piccolo traguardo.

Dicono che i bambini sono spesso innocentemente cattivi. In verità non lo sono. Nessun bambino, nessuno, durante tutto il soggiorno in colonia ignorò Gigi, né lo lasciò da parte. Ed è straordinaria la capacità dei piccoli di non sentire le diversità come qualcosa di strano, di lontano, di anomalo, di nemico…E’ straordinario osservare come essi siano in grado di utilizzare linguaggi sconosciuti per entrare con estrema naturalezza in mondi irraggiungibili dagli adulti. I piccoli coinvolgevano il loro compagno in ogni gioco e cercavano la sua presenza anche quando, come suo solito, lui si appartava prendendo un giornale, sfogliando ritmicamente le pagine sulle quali faceva schioccare le dita e poi, con una matita, le bucava.

Tutto ciò lo attraeva terribilmente e lo portava a ripetere questo gesto senza annoiarsi mai. Per i bambini della colonia Gigi era uno di loro, era un bambino come loro; anche se passeggiando per i caruggi liguri saltellava ritmicamente, senza resistere alla tentazione di prendere di colpo qualsiasi cosa trovasse a disposizione, soprattutto nei negozi, preferendo in genere caramelle e gomme da masticare. O quando, ancora, mangiava a tavola con loro e non riuscendo ad usare le forchette metteva il cibo in bocca ingordamente e con poca delicatezza.

Giulia adorava ogni cosa di lui, era diventata la sua ombra, ed era pronta ad intervenire per prevenire e dimensionare ogni suo eccesso. Ma non voleva fare niente al posto suo, voleva che lui facesse tutto come qualsiasi altro coetaneo, perchè lui era come i suoi coetanei. Gigi cercava sempre la presenza di lei, con uno sguardo, con il tatto, con un suono della voce.

L’emozione più grande che le regalò fu la sera di ferragosto. Dopo la cena festiva, vennero organizzatati dagli educatori della colonia dei giochi ai quali tutti i bambini parteciparono; Gigi si allontanò, non amava la confusione e lo innervosiva la musica troppo forte. Giulia lo seguì, come sempre, percorrendo quella salita che portava ad uno spiazzale dove si trovava un grande e antico salice piangente. La ragazza si sedette su un muretto, osservandolo serenamente mentre correva e saltellava, immerso nel suo mondo, nelle vie profonde e impenetrabili dei suoi pensieri.

All’improvviso Gigi cominciò a correre in cerchio: ogni volta che passava sotto quell’albero strappava delle foglie e le buttava per terra, disegnando una perfetta spirale gigante sul cemento. Giulia rimase basita, senza parole. Il bambino sembrava non fare caso a quello che stava facendo, ma quella spirale di foglie era il frutto di una precisione estrema, di un calcolo perfetto, di un ordine ricercato. Appena finì, ritornò correndo insieme agli altri bambini, come se nulla fosse, come se non si fosse nemmeno accorto della bellezza che aveva creato.

Giulia rimase lì un po’; avrebbe voluto scattare una foto, ma non ce n’era bisogno: quell’immagine straordinaria sarebbe rimasta impressa nella sua mente per sempre, come un ricordo indelebile, unico e caro. La spirale di foglie rimase lì per giorni, sotto gli occhi ammirati di tutti e sotto il sole caldo di agosto. Fu il vento, pochi giorni dopo, a portarla via, nell’aria, per sempre; come aveva portato via velocemente quei quindici giorni che avevano lasciato a Giulia una ricchezza interiore, che nessun vento né tempesta avrebbero mai potuto portare via.

Il viaggio di ritorno fu tranquillo, Gigi rimase teso ma sereno; ma per Giulia fu più triste perchè segnò il distacco da lui, che ormai aveva imparato a conoscere senza parole, ma solo attraversando un piccolo passaggio chiamato cuore. E guardando verso il finestrino della corriera, la ragazza immaginava già la prossima estate e la strada che avrebbero ripercorso nuovamente insieme”.

di Isa Voi

Il mio racconto è stato pubblicato anche su: http://www.blogtaormina.it/2012/02/08/autismo-diario-della-sofferenza-nascosta/88928

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