INVITO ALLA LETTURA: “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello (1904)

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Cari lettori, vi proponiamo un assaggio di questo romanzo per invitarvi a leggerlo; un capolavoro imperdibile….

 

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Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca; poi, non contento, mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato fra noi.
Che seguì? Ci volle un pezzo, prima ch’io smarrito di confusione e di vergogna, potessi riavermi in quell’improvviso disordine…..
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…”Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico alle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un pò di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa  le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?

…Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso della noja e della miseria”….

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…Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un’altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che siano venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d’ammaccature.
Ora così venne a maturazione l’anima mia, ancora acerba.

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….da casa mia rifugivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì: ma poteva bastarmi?
 La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali, provai un brivido d’orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli..

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L’immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia.

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Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato com’ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere a quel modo; miserabile, senza nè probabilità nè speranza di miglioramento, senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche minimo all’amarezza, allo squallore, alla terribile desolazione in cui era piombato; per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca.

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Gli abiti che indossiamo, il loro taglio, il loro colore, possono far pensare di noi le cose più strane.
Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in quanto mi pareva di non esser vestito male.

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…Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che sorgono, quando il bisogno, come un gattaccio ispido e nero s’accovaccia su la cenere di un focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza.

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Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno…ma sì! la mia liberazione e la libertà una vita nuova.

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Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi.
“E innanzi tutto,” dicevo a me stesso, “avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, nè le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicchè alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini”.

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…Recisa di netto ogni memoria  in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io ero invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento, Oh levità deliziosa dell’anima; serena ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all’improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: “Vedrai, vedrai com’essa t’apparirà curiosa, ora, a guardarla così da fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini…”
Sorridevo.

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Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l’altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d’oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch’esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne?
Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano.
Tutto, attorno, mi s’era rifatto nero.
Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sè, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell’ultimo anello!

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…Nulla ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s’inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose essenziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sè!
Or che cos’ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sè, pur calata nella realtà.

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…Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolio di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’intronavano.

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…”Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l’identico. I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.”

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…”Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual’è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà…
Torniamo a casa.”

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…E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza.

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…Rimasi lì, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano.

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…M’è sembrata una fortuna l’esser creduto morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti  non debbono più morire e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? la noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso?

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…L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…

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Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra.
Passò un tram, e vi montai.
Rientrando in casa…

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