“Alla fine…”, il penultimo capitolo dell’avventuroso racconto di Samuele Avantage Jr Goury

Cari lettori,

Ecco a voi la 10° puntata del racconto di Samuele Avantage Jr Goury, che ci ha tenuti compagnia nei mesi scorsi raccontandoci le sue appassionate avventure di viaggio dall’Italia alle isole Canarie, raccontate nella rubrica dei collaboratori.

Buona lettura.

ALLA FINE…

Mi spiace non aver potuto raccontare di più, tutti i momenti, gli aneddoti e le esperienze che abbiamo passato io e i miei compagni di viaggio avrebbero meritato un omaggio più completo, così come avrei dovuto mostrare più precisione rispetto allo spettacolo naturale che si concretizzò davanti, ma penso con convinzione che ci siano cose che vanno scritte e altre che vanno viste con i propri occhi, motivo per cui ho ritenuto più funzionale cercare di trasmettere tutta quell’esplosione emozionale e filosofica che accompagnò e scandì i passi lungo il percorso, piuttosto che trascinare e costringere l’attimo fuggente di un immagine variopinta che colpisce l’animo e non il lettore, all’interno di una dimensione di caratteri in bianco e nero. Così come sono convinto che ci siano situazioni e talvolta persone che meritano di essere vissute…

Mi ricordo la frenesia di quell’ultima camminata che sembrava infinita, forse ero io che la rendevo eterna, certamente non aiutava l’approccio di quel giorno: giravo ogni angolo del percorso come fosse l’ultimo e venivo ripetutamente deluso da un altro segmento, un altro sentiero, un altro albero, un altro passo… Sono fatto così, impazienza come principio d’esistenza e infatti non seppi controllarmi, salutai i miei compagni con un arrivederci a Santiago e aumentai il ritmo perché non sapevo tenere il passo della spensieratezza e iniziai a camminare come stessi cavalcando sulle mie gambe.

Ero talmente ansioso che il mondo attorno mi sembrava ruotare più piano, quasi a rallentatore, mi sentii stupido, malinconico e solo. Quando doppiai un gruppo di ragazzi sorridenti che procedevano assieme, mi ricordai dei miei compagni di viaggio, pensai di aspettarli ma ancora una volta la frenesia e l’impazienza ricacciarono il senso nostalgico e mi fecero proseguire rapido come il Bianconiglio all’appuntamento col destino nel paese delle meraviglie.

Arrivai per primo, una collina verde, l’ultima, la più grande, dominava la città di Santiago. Una grande scultura e una piccola chiesetta crearono una contraddizione nel mio stato d’animo che fece da contatto per un’esplosione di gioia per il traguardo raggiunto e una malinconica gratitudine per tutto ciò che potevo dire di avere o avere avuto nel percorso chiamato vita. Sorrisi e pianti si susseguirono come se l’anima avesse trascinato il corpo all’interno di un universo in cui la coerenza non aveva significato. Una sensazione assoluta di un’intensità tanto sublime che non potèi resistervi a lungo e caddi come svenuto in un sonno profondo che finalmente azzerò le mie preoccupazioni..

Mi svegliò lo squillo di un telefono, il mio; Stefano: «oh! Ma dove sei? Siamo davanti alla cattedrale, pensavamo di trovarti qui». Mi guardai attorno e mi resi conto che non ero proprio arrivato a destinazione, per un attimo mi sentii perso e spaesato, ma il vuoto causato da quella detonazione di emozioni, insieme al riposo rigenerativo, mi avevano caricato di stimoli tanto che sbagliai strada e allungai di un cateto e un’ipotenusa.

Arrivai per ultimo, la Praza do Obradoiro colma di gente proveniente da tutto il mondo, contorno aureo di monoliti accatastati accoglieva la nostra soddisfazione e complimentava le nostre fatiche. Mi ricordo una piazza piena di sorrisi splendere al sole, un rincorrersi di sguardi che cercavano di compiacersi nello specchio di un viso altrui, una connessione totale con il contesto che ti circonda e una moltitudine di zaini che rompeva la trasmissione medievale di Santiago e della sua città vecchia. Uno dei centri storici più belli mai visti, si aprì ai nostri passi che non erano più quelli di una marcia bensì di una parata. Non vi cercherò invano di descrivere una gioia che non può trovare giustizia tra le catene di una parola, ecco l’ho fatto! Ma solo per legittimare un momento storico che, alla sera, celebrammo con una festa sregolata e liberatoria nel quartiere periferico della città, l’ultimo ostello nel quale alloggiammo.

Ed eccoci qui, arrivati alla fine penserete… Non così in fretta, noi eravamo soltanto la testa di carovana lunga più di ventiquattro ore, una comitiva internazionale che si completò il giorno seguente. Un gruppo in cui la diversità non generava paura ma costituiva un valore aggiunto, un’espressione fiera e peculiare, un timbro che distingueva e univa nello stesso momento. Silvia, Marianna, Lupo, Checco, Piero-Pietro, Antonio e tanti altri amici provenienti da tutto il mondo, persone che neanche conoscevamo andarono a perfezionare i posti a tavola da aggiungere.

La sera del tre di agosto del 2017, una catena di conoscenze si annodò tra i tavoli di un ristorante in Praza de Cervantes nella “zona vieja” di Santiago de Compostela. Una cena magnifica per commemorare un’esperienza totale. Disinibiti dalla gioia ci lasciammo inebriare dal vino “tinto”, come dicono in Spagna, di un rosso fuoco che accese la notte, le sue voglie e i suoi piaceri. Ed eccola la Santiago notturna che si cela dietro la solennità e la riverenza delle sue cattedrali, esplodere di musica libera che ti sorprende come sorprese noi all’uscita dal locale. Piazza gremita ai piedi di un palco che stava sprigionando folklore africano, una band dal Ghana stava dettando il ritmo della malizia che provocava movenze e la gravità non poté nulla contro quello scambio contagioso e interattivo di energia che la danza sublimava. Ci tuffammo insieme in quello che era uno spettacolo globale, per artisti, pubblico e per un umore sincronizzato da quei quattro ragazzi che infaticabili continuavano a regalar note e vibrazioni alla luna e ci sentimmo ribollire di adrenalina e di emozioni indescrivibili, era come se invece di toccare i loro strumenti toccassero dei fili invisibili che guidavano le nostre intenzioni. Ballavano come burattini di uno spettacolo di marionette che andava oltre il palco. Ballavano tutti perché rimanere fermi quella sera significava macchiarsi di un crimine contro la felicità. Ballavano tutti, mi girai a constatarlo…fu alla terza occhiata che lanciai alla folla che un vestito rosso ruppe il variegato ordinario e polarizzò la mia attenzione, mi invitò a osservare l’indossatrice che fu tanto pronta a incrociare lo sguardo quanto lesta nel distoglierlo. Mi girai altre tre volte per verificare il mio interesse e constatai che, forse, reciproco. Diciamo che a quel punto ero sicuro che fosse abbastanza carina e che mi avesse perlomeno notato. La musica tornò a essere la protagonista dei miei movimenti e per un po’ non la guardai, ma ciò non toglie che avesse polarizzato la mia attenzione, la mia mente continuava a proiettare l’immagine della sua espressione al centro dei miei pensieri, un ghigno gentile che aggiungeva consapevolezza alla sua grazia, un viso angelico faceva sì che il vestito venisse vestito e non viceversa, e proprio mentre mi trovavo assorto nella definizione di quella bellezza ecco che proprio la dama in questione mi si materializzò accanto e mi fece scacco e diventai matto nel saperla così vicino da sentirne il profumo aromatizzato al cocco, esotico come i lineamenti del suo viso, così vicino da constatare che quelle linee non facevano altro che addobbare il bagliore dei suoi occhi verdi, quanto mai speranza. Se prima ero stato colpito, ora affondavo immobile nell’ignoranza strategica, muto, chiesi aiuto a Stefano con un colpo di gomito e senza parole domandai se vedesse anche lui quell’angelo vestito d’inferno che volteggiava spensierato beffandosi della notte. La mia espressione dovette essere pari a un beato babbeo, perché Stefano potesse rispondere con una risata, ma ciò che veramente mi importava a quel punto era che non stessi sognando e che le miriadi di chilometri a piedi non mi stessero giocando un brutto scherzo e che quindi quella visione celeste non fosse frutto di un miraggio. Rinsavito dallo spavento pensai a come ingaggiare e pensai che le parole non fossero alleate in quel contesto bellico, la musica era troppo alta e non sapevo neanche che lingua parlasse, poi stava ballando e sarebbe stato un delitto fermare un corpo celeste che danza. Decisi che il metodo migliore per presentarmi fosse accompagnare la sua esibizione sincronizzando i miei movimenti con i suoi e offrire l’opportunità per un sorriso che lei accolse e ricambiò simmetricamente…

La ricordo davvero troppo bella e lo pensai in questo preciso momento in cui nella marea di gente ci ritrovammo lontani ed ebbi al mio fianco una sua amica, che sembrava meno impossibile e più alla portata. Continuo con il mio voto di sincerità, senza omettere particolari e confido che le mie intenzioni rigettavano sentimento ma bramavano emozioni, dei più bassi, puramente carnali. Ma lei riprese posizione nel mio destino distogliendo lo sguardo dall’istinto e innalzando le virtù e allora più che preso, quasi rapito dalle circostanze approcciai con il coraggio di chi non ha nulla da perdere e una sola via di fuga in quest’arte della guerra: quella di togliere ogni velo all’interrogazione, verificandone il dubbio. Si staccò dal suo gruppo di amiche, decisi allora di cogliere l’occasione e con determinazione la raggiunsi al bar pronto a offrirle da bere…si, peccato che tutto ciò che la voleva al bancone era una semplice penna che le sarebbe servita per farsi firmare l’album della band musicale. Potete immaginarvi l’imbarazzo, provai a raccogliere gli ultimi brandelli rimastimi di un coraggio ormai atrofizzato e le dissi che se voleva, dopo l’autografo, una birra l’avrebbe aspettata qui con me. Lei mi rispose alla veloce con un si di cortesia che non faceva intendere un reale interesse, con un colpo di coda dettato dall’orgoglio di un duellante alle soglie della sconfitta ma stante resiliente, le dissi in un fiero e chiaro inglese: «hai intenzione di tornare davvero o mi lascerai qui da solo come un cretino a scaldare la birra tra le mani?». Fu solo la risata che seppi generare ad attirare la sua attenzione, fu solo a partire da quel momento che mi prese davvero sul serio e solo in quell’istante decise di fermarsi e valutare l’offerta. Mi guardò scrutandomi dalla testa ai piedi mentre nello stesso attimo io pregavo tutti i cerchi del cielo che mi venisse concessa quell’opportunità. Alla fine di quella rapida risonanza magnetica, che mi parve durare ore, mi offrì una superficiale ma scherzosa promessa che avrebbe fatto ritorno. Passarono secoli, le birre si fecero tè, avrei potuto berle tutte e tue e chiederne altre tre, ma rimasi fermo, passivo, teso e contratto, pendente di una promessa che venne mantenuta. Tornò proprio quando mi ero ormai rassegnato all’idea di non vederla più. Fu una conversazione rapida che diede giusto il tempo di scambiare nomi e contatti telefonici, tanto che mi chiesi se non fosse tornata più per la birra che per me. Questo dilemma mi lasciò cupo e confuso, come il cielo di quella sera in cui nubi invisibili avevano oscurato le stelle e alternavano piccoli rovesci, acquoline provocatrici e scoraggianti. Non smisi di pensare a lei per tutto il resto di una serata che andava terminando. Anche la band sul palco aveva smesso di tuonare musica e ci recammo in un bar nella stessa piazza a riprendere fiato e a riparare da una pioggerellina malinconicamente serena che sembrava voler continuare la sua melodia in sincronia con il mio umore.

Il sottofondo musicale autoctono del locale gridava il suo orgoglio celtico, nessuna band, solo dei ragazzi che tra una birra e l’altra, tenevano il tempo all’ammaliante suono del violino di una ragazza ubriaca di musica. Mi sorprese quella distesa di birre sul tavolo, rigorosamente Estrella Galizia, sembravano aver ribaltato la volta celeste e liberato le stelle rubate dalle nubi. Proprio mentre mi gustavo quegl’ultimi colpi di musica prima di rincasare, ecco che venni catapultato contro ogni previsione nella migliore delle ipotesi possibile. Tamara, apparve a ricordarmi il suo nome sullo schermo del mio cellulare e mi scrisse chiedendomi dove fossi. Stentavo a credere che fosse stata lei a fare la prima mossa. Le segnalai la mia posizione e cercai di guadagnare tempo sulla voglia di rincasare del gruppo che aveva esaurito le proprie energie. Ma il tempo scorreva e lei non si faceva viva, e insieme all’ora era passata anche la mia voglia di aspettarla. Non me ne vogliate, ma dopo più di trecento chilometri passati assieme, io e Stefano avevamo instaurato un certo feeling con le nostre compagne di viaggio e tra un flirt e l’altro si era aperta la possibilità di un’ultima notte ambigua e incerta… Decidemmo di rincasare e proprio a pochi passi da casa, ebbi tempestivamente l’attimo fuggente di una duplice opportunità, un bivio che voleva da una parte la certezza di piacere a Marta e dall’altra Tamara che ribadiva il suo interesse di una possibilità più che mai certa all’interno di un altro messaggio eloquente che diceva di aver raggiunto il bar lasciato pochi muniti prima e che mi stava aspettando…

Mi fermai e chiesi l’ennesimo aiuto al mio capitano, ma Stefano era giustamente distratto dalle attenzioni di Silvia e non voleva essere disturbato da altre inutili molestie, ma io ero insistente e allora decidemmo di immortalare il momento con il più fraterno dei gesti: l’espulsione simultanea delle nostre scorie liquide, insomma urinammo in compagnia l’uno dell’altro. La prenderete forse come una caduta di stile, ma per noi fu come un’occasione per fermare il tempo e compiacersi prendendosi i meriti per un’esperienza che studiammo letteralmente “a tavolino” di un bar novarese alla vigilia di uno “shot” che in inglese significa colpo e che si stava per concludere per entrambi nel migliore dei modi, con quello che in gergo calcistico costituirebbe un colpaccio in trasferta. Ci congedammo con un in bocca al lupo reciproco e ci avviammo, uno verso casa base, l’altro verso l’ignoto…

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