“Influenze”, il 7° capitolo del racconto di Samuele Avantage Jr Goury

Influenze

Completamente spossati, approcciammo la cima del monte con una soddisfazione che insieme alla stanchezza offuscavano la vista e obliteravano l’aspettativa di cosa avremmo trovato, perché succede, ed è un altro magico paradosso della vita, che la parte più intensa è il viaggio e non il traguardo, che l’energia che accumuliamo con l’aspettativa d’arrivo trova sfogo più nel ricordo che nel vissuto. Noi ci guardavamo con faccia stanca e occhi sorridenti, compiaciuti, che condividevano il mutuo orgoglio dell’impresa riuscita. Fu così che a poco a poco realizzammo lo splendore di quel posto, mettendo lentamente a fuoco ogni piccolo dettagli, i mattoni delle case: pietre accatastate con una geometria perfetta che dava l’impressione che fossero tutte parte di un unico blocco, invece era stata la meticolosità di un tempo passato in cui le cose si facevano per farle belle e non per farci soldi o «sordi» come diceva il mio caro nonno in un dialetto salentino in cui la parola si completa di un significato opportuna. Una terra vergine incontaminata dal putrido asfalto, un vista mozzafiato che si perdeva per chilometri e chilometri e che ti faceva perdere nel tentativo di scrutare il punto più lontano. Mi ricordo che ci sedemmo a lungo per godere del meritato riposo, ritrovammo Andrea, vi ricordate? Il nostro mago Merlino da Ponferrada a O’Cebreiro per offrirci un altro trucco di magia, con la sua bacchetta magica ci resettò il flusso sanguigno che andò a dar sollievo a dei muscoli compromessi dalla salita, ma soprattutto ci permise di volare in quel vuoto infinito di pensieri che ci ruotavano attorno questa volta come aquile guardiane del nostro nido scopertosi fragile. Non so se per la bacchetta magica di Andrea ma ancora oggi lo ricordo come momento tra i più intensi se non il. Era come se quell’immenso vuoto panoramico avesse colmato ogni dubbio; in silenzio, si apriva a te trasmettendoti una possibilità infinita di soluzioni. Era come leggere nel corso degli eventi, c’era l’albero in prossimità che potevi delineare in ogni suo particolare, c’era il monte lontano che faceva palesare solo il suo contorno e la minaccia di un’altra salita, poi, se eri bravo abbastanza, potevi scorgere il quadro d’insieme fatto di sfumature di colori tutti diversi in cui l’estetica raggiungeva un altro livello, sublimizzando l’intelletto in una definizione tutta nuova che arricchiva il tuo vocabolario, che arricchiva te stesso. Il passato non aveva spazio all’interno di quell’infinito insieme di opportunità, se volevi rimuginare nel “c’era una volta” saresti dovuto tornare indietro, operazione del tutto innaturale arrivati a quel punto, appunto.

Ve ne ho raccontate poche ma ne abbiamo passate tante, arrivati a quel punto del viaggio il nostro gruppo si era arricchito di altri due elementi, due ragazze, sorelle e cognate, scusatemi cognate ma legate come sorelle che andavano a rinforzare il lato femminile e divertente della nostra squadra. Silvia e Marianna a loro volta ci hanno permesso di conoscere altre fantastiche persone: mi ricordo di Checco, la mascotte del gruppo, definirlo simpatico era veramente troppo riduttivo, pensate che quello non era neppure il suo vero nome (che non mi ricordo nemmeno) lo chiamavamo così per via della simpatia e di una somiglianza agghiacciante con il comico Checco Zalone. Troppo immerso nei miei pensieri ho trascurato Antonio un ragazzo della nostra età che era alle prese con una crisi ben più grande della mia, una crisi esistenziale vera: aveva intenzione, salvo qualche riserva, di prendere gli ordini per diventare prete e alla fine di quel viaggio avrebbe preso in una mano una decisione mentre nell’altra liberato il suo destino.

Ho esordito anticipando che la mia non sarebbe stata la solita questione sentimentale, non ho mentito, ma arrivati a questi punto è giusto svelare ciò che ho tenuto nascosto all’inizio di quest’avventura. La crisi esistenziale esisteva ed era tangibile, ma ho omesso il particolare che la scatenò, quello sì, piuttosto sentimentale. Una storia troppo importante e troppo lunga per essere costretta dentro poche righe di uno scritto. Vi dirò che nella vita in generale si danno per scontato troppe cose, questo approcciò alla quotidianità finisce per farci rovinare all’interno dell’incoscienza. Soprattutto quando si è un po’ più giovani, si ha quella percezione di onnipotenza che permette e perdona tanti, talvolta troppi, errori. Questo mio spirito un po’ libertino disinibì le barriere della fedeltà facendomi rantolare in un circolo vizioso composto da un legame abbastanza forte da sopravvivere a scosse di terremoto di magnitudo altissime, seppur non abbastanza stabile da sopperire a quei finti addii figli di un tira e molla inevitabile quando un sentimento è presente ma non ben confezionato. In questi casi succede che cadono, si danneggiano e si rovinano questi regali che chiamiamo relazioni e rompono qualcosa anche dentro di noi. Soprattutto quando, come nel mio caso, dopo una serie infinite di ultimatum incompresi tradisci le tue false promesse e fraintendi il concetto di reciprocità. La faccio lunga e complicata perché ancora duole il ricordo di cosa si è stati e del male si possa aver creato, neanche troppo inconsciamente, alle persone che contano di più. Un mix di indifferenza e insofferenza, con un pizzico di egoismo furono gli ingredienti per un cocktail letale per me e la relazione in cui avevo scelto di sbagliare.

L’intensità di quell’esperienza resero più incidenti i pensieri che costruirono la percezione che viviamo la vita come delle piccole calamite influenzabili da qualsiasi flusso magnetico che le circonda e determinano i nostri comportamenti muovendoci come burattini volti alla compiacenza delle aspettative dei poli più forti. Il carisma è l’elemento che domina questo mondo, perché riesce a far compiere azioni a chi non ha intenzioni. Quando intesi che parte dei miei comportamenti, ma soprattutto dei miei errori, erano dovuti a una risposta inconscia alle aspettative sociali mi scoprì fragile e manipolabile, superficiale e colpevole di aver permesso che l’idea che gli altri si erano fatti su di me potesse contribuire a ferire una persona che non si meritava nient’altro che attenzioni.

Se a questo punto le mie colpe mi hanno posto in cattiva luce, sappiate che quello da antagonista è un completo presente nel guardaroba di tutti e che tutti, o quasi sappiamo calzare. Quello che voglio dire è che ho pagato per i miei sbagli ma anche che ho saputo sfruttarli per sublimizzare la crisi esistenziale in cui mi avevano, in cui mi ero, cacciato. Questo è stato il perdono più bello che potessi ricevere, non quello esente da pene, bensì quello nel quale la pena è un enigma che se decifrato correttamente sblocca la possibilità di imparare a essere migliori di chi si è stati ieri, ecco l’apoteosi del pro-seguire.

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